Un romanzo di Emilio Vanoni racconta la ventennale ospitalità dei bambini bielorussi nelle case varesine. Con il pretesto di una vicenda sentimentale.
I bambini di Cernobyl e il Sacro Monte di Varese. Che cosa hanno in comune due luoghi così lontani e diversi tra loro, uno deserto e scheletrito dalle scorie nucleari, l’altro verdeggiante di boschi, mistico e incontaminato? A unirli è da molti anni il filo della solidarietà umana, l’impegno di un gruppo di persone che si sono prese a cuore i destini dei piccoli scampati a uno dei drammi più sconvolgenti degli ultimi cinquant’anni, il disastro nucleare del 26 aprile 1986. Lo ricorderete. Una nube di materiali radioattivi fuoriuscì dal reattore della centrale bielorussa e contaminò vaste aree dell’ex Unione Sovietica provocando decine di vittime: 66 accertate, 4mila presunte dall’Onu, 6 milioni secondo Greenpeace per conseguenze varie alla salute manifestatesi nel tempo. L’incidente fu forse causato da un errore umano o dalla difettosa progettazione della centrale. L’allarme esiste tuttora. I pericoli sono rappresentati dalle contaminazioni da cesio 137 che persistono trecento anni e dal plutonio 239, i cui effetti durano addirittura migliaia d’anni.
L’altruismo però, quando è sorretto da una forte volontà, travolge ogni ostacolo e così, da un quarto di secolo, ogni anno, sensibili e volonterose famiglie di Varese, Induno Olona, Arcisate, Cantello, Malnate, Cuveglio, Gazzada, Cremenaga e altri paesi del Varesotto aprono le loro case ai piccoli bielorussi. Offrono soggiorni gratuiti e spensierate gite al Sacro Monte, alle isole Borromee, al mare in Liguria o sulla costa romagnola.
I bambini hanno spesso commoventi storie alle spalle. Come quella di Eugeny che viveva a Chechersk in Bielorussia ed è stato ospite di una famiglia di Cantello, sempre la stessa per molti anni. La madre di Eugeny si guadagnava da vivere facendo la badante in Sicilia e non aveva i soldi per tornare in patria a vedere il figlio (che viveva con la sorella grande). Così la donna approfittava del Progetto Cernobyl per venire a Cantello e trascorrere con il figlioletto almeno qualche giorno.
Quest’anno, a causa della pandemia, il consueto soggiorno a Varese dei bambini bielorussi non potrà avere luogo. Ma a tenere vivo il ricordo di questa bella e originale catena di solidarietà ci ha pensato uno dei suoi storici organizzatori, Emilio Vanoni, di Induno Olona, con un’idea semplice ed efficace. Un libro. Che ci ricorda quello che può accadere a questo mondo se non si ha cura dell’ambiente. Un libro decisamente fuori dagli schemi, metà romanzo d’amore e metà saggio storico, metà ardore sentimentale e metà impegno civico, metà desiderio passionale e metà trasporto altruistico. Le grandi case editrici nazionali potrebbero forse giudicarlo un’opera irrisolta. Non così il gruppo Albatros Il Filo di Roma che lo ha pubblicato con una bella prefazione di Barbara Alberti.
Emilio Vanoni è fabbro di professione e scrittore per diletto. Nel 2019 ha già pubblicato con Macchione un romanzo ambientato a Luino negli anni della Resistenza partigiana con la presentazione del giornalista Franco Giannantoni. Una firma di prestigio. Ora torna in libreria con il secondo romanzo, “Cernobyl, amore impossibile” (219 pp., Albatros, € 14,90) e una bizzarra formula: traccia lo scenario di fondo mescolando un po’ di tutto, dall’immancabile coronavirus al regime poliziesco e liberticida di Lukashenko in Bielorussia, dalla solidarietà ai migranti che arrivano coi barconi al disastro nucleare, appunto, di Cernobyl.
Al centro della storia l’incontro di Giacomo e Nadia, lui organizzatore dei soggiorni-vacanza, lei accompagnatrice dei bambini bielorussi. Lui di mezza età, felicemente sposato, lei giovane attraente e disinvolta, a tratti un po’ sfacciata. Lui in piena attività lavorativa, lei in fuga dai veleni nucleari che, appena giunta in Italia, si lascia andare e scopre il paradiso terrestre. Una trama d’amore? Forse si tratta più dell’eterno mistero dell’attrazione, del gioco della seduzione tra un uomo e una donna di diverse età che alla fine lascia tutto com’era. Lui si prende una cotta, lei… beh, lasciamo la sorpresa a chi volesse leggere il romanzo.
Questa è la chiave per rievocare, con leggerezza, il disastro nucleare di Chernobyl che incombe sull’intera vicenda. In primo piano il vociare dei piccoli ospiti bielorussi, le riunioni all’oratorio con le famiglie che li prendono in carico e ne hanno cura come fossero loro figli, le feste organizzate dal parroco con panini e Coca-Cola e le gite fuori porta. Tutto molto realistico. Autentici sono i nomi dei paesi che fanno da cornice – Lugano, Porto Ceresio, Laveno Mombello, Stresa ecc. – veri i cognomi del dentista e del cardiologo di Induno che visitano i bambini, precisi i negozi di Varese, i nomi delle chiese, dei giornali, delle associazioni.
L’autore cita perfino l’ex sindaco di Induno Maria Angela Bianchi e quello di Varese Attilio Fontana. E descrive alla sua maniera un angolo di S. Maria del Monte: “Quando qualcuno voleva portare amici e parenti a guardare le meraviglie del paesaggio, il posto era sempre il Sacro Monte. Si recarono quindi nello stesso ristorante, il Milano, che alcuni giorni prima aveva offerto il gelato ai bambini. Si sedettero uno di fronte all’altra in quella specie di terrazzino appartato, separato dal salone che creava una perfetta familiarità…”.
Il libro tradisce l’urgenza dell’autore di sfruttare le pagine per metterci dentro tutto, per esprimersi, per raccontare il suo punto di vista sul mondo, sulla vita, sulla politica, sulla religione. Anche se la trama fluirebbe leggera senza bisogno di appesantirla. Un po’ romanzo e un po’ saggio, si diceva sopra. Stile libero. Senza farsi ingabbiare da confini letterari e intimorire da regole grammaticali.